L’intervista all’esperto: Vincenzo Leuzzi, Responsabile della UOC di Neuropsichiatria Infantile presso il Policlinico Umberto I.
Il coinvolgimento del gene GNAO1 in una grave encefalopatia epilettica ad esordio precoce è stato scoperto recentemente, nel 2013, da un gruppo di ricerca giapponese. Questo gene è stato quindi inserito nei pannelli di geni che vengono esaminati in modo in tutti i bambini che presentano forme gravi di epilessia ad esordio precoce non riconducibili a cause acquisite. Si tratta di bambini che spesso presentano anche ritardo psicomotorio ed altri sintomi neurologici, come nel caso di Elena, che vi abbiamo raccontato qui.
Utilizzando questi pannelli, si è trovato che le alterazioni di questo gene potevano causare forme più lievi di epilessia, o anche non essere associate ad epilessia, ma piuttosto ritardo psicomotorio e movimenti involontari di tipo coreico ad esordio nei primi anni di vita, spiega Vincenzo Leuzzi, professore di Neuropsichiatria all’Università La Sapienza di Roma, Responsabile della UOC di Neuropsichiatria Infantile presso il Policlinico Umberto I.
I movimenti coreici sono movimenti involontari rapidi, caotici e talora anche molto ampi e spesso fortemente disabilitanti. Nei bambini affetti da mutazione del gene GNAO1 si manifestano spesso in forma parossistica per la durata a volte anche di alcune ore e si alternano a fasi di tranquillità o assoluta mancanza di motilità. “Questi movimenti possono diventare così continui ed intensi da determinare una sofferenza delle fibre muscolari dalle quali fuoriescono enzimi e proteine che possono determinare un danno renale secondario anche molto grave ed acuto”, continua Leuzzi.
Data la recente scoperta del gene e delle conseguenze della sua alterazione, servirà del tempo per avere un’idea più precisa dell’epidemiologia delle condizioni cliniche ad esso associate. Al momento, ci sono poco meno di un centinaio di casi riportati, ma ci sono continue segnalazioni”, spiega Leuzzi.
Il gene GNAO1 è molto importante, spiega lo specialista, perché produce una proteina, la proteina G, che ha un ruolo fondamentale nel mediare gli effetti della trasmissione del segnale nelle cellule nervose. “Si tratta di una famiglia di proteine che veicola segnali intracellulari il cui significato e le cui conseguenze variano in funzione del tessuto. Ad esempio, alcune di queste proteine sono implicate in alcuni specifici meccanismi dell’oncogenesi”, continua il professore. Ci sono molte ricerche in corso su questa famiglia di proteine, anche se non specificamente connesse alla mutazione del gene GNAO1. “Siamo per ora in una situazione di malattia relativamente rara con ancora limitate prospettive sul piano terapeutico. Si tratta inoltre di un contesto biologico tutt’altro che semplice, perché si deve agire sui meccanismi di comunicazione intracellulare non facilmente approcciabili dal punto di vista terapeutico. In questo momento, si stanno studiando alcuni modelli preclinici per poi capire come trasferire possibili ipotesi terapeutiche in un ambito più strettamente clinico. In generale, si ha l’impressione di non essere di fronte a una malattia degenerativa. Piuttosto si tratta di una condizione stabile nel tempo sebbene con un importante quadro di disabilità nella maggior parte dei bambini affetti”, spiega Leuzzi.
Il disturbo del movimento specifico della forma sembra rispondere bene a un farmaco, la tetrabenazina, già utilizzato con successo in altri disturbi del movimento. Nelle forme più gravi della malattia, sembra essere efficace l’adozione di stimolatori cerebrali profondi, a livello dei gangli della base e del pallido. Si tratta di una sorta di pacemaker, che con la propria azione a bassissimo voltaggio è in grado di moderare o talvolta ridurre significativamente la frequenza e l’intensità dei movimenti involontari. “Sono stati riportati diversi casi in letteratura, tutti con esito positivo”. Si tratta ovviamente di terapie sintomatiche, non eziologiche. Aumentando il numero di pazienti e col migliorare della terapia genica, si potranno aprire nuove prospettive terapeutiche per il futuro. È importante che i genitori di questi bambini ‘rari’ si tengano in contatto e lavorino con i centri ove sono seguiti, e che ci sia una rete integrata di interventi terapeutici in cui quello riabilitativo ha tuttora un ruolo centrale, conclude Leuzzi.
Fonte: Osservatorio Malattie Rare
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